di Mara Vegansoya La sistematizzazione della teoria dell'evoluzione operata da Darwin ne “L'origine delle specie” del 1856 e nei testi successivi, ha aperto la strada a implicazioni filosofiche sul ruolo dell'uomo nella natura, tali da minare la tradizionale dottrina della “separatezza”, cioè l'idea secondo la quale l’uomo, quale “grande opera divina” fosse essere diverso dagli animali. Darwin, superando l'essenzialismo tipico dei filosofi e dei biologi tedeschi della sua epoca, in favore di un innovativo atteggiamento empirista, ebbe il coraggio (sebbene dopo vent'anni di titubanze) di esporre una teoria che avrebbe avuto l'implicazione rivoluzionaria di collocare l'uomo all'interno della natura e non più fuori essa da essa. Questa teoria declassava l'uomo ad “animale tra gli animali”, non più frutto di un progetto speciale divino e, in quanto tale, ontologicamente superiore e legittimato al dominio. Il darwinismo infligge un colpo mortale (se accettato senza remore) all'antropocentrismo. La rappresentazione del bios, accettando l'ipotesi darwiniana, non può più essere ricondotta ad uno schema gerarchico e in categorizzazioni essenzialiste immutabili, ma piuttosto ad un processo continuamente in divenire, rappresentabile come un progressivo diramarsi di forme vitali a partire da un’origine comune più semplice. Il livello di complessità raggiunto dall’ uomo, sia biologica che di competenze “superiori” si scopre frutto intimamente legato al livello “inferiore” da cui derivava in modo organico. Viene a saltare quindi l’elemento distintivo e gerarchico che legittimava la conseguente disparità morale. La portata della rivoluzione Darwiniana si dimostrava così profonda e scomoda che persino Thomas Henry Huxley, il più accanito diffusore e sostenitore della teoria del maestro, nelle sue conferenze pubbliche era solito stemperare la questione affermando che nonostante non ci fosse nessuna linea di demarcazione tra noi e gli animali, seppur derivassimo dai bruti, certamente l'uomo civilizzato non fosse più uno di loro e dunque che il darwinismo non aveva implicazioni negative per l'idea della dignità umana (Rachels 1990: 96). Proprio nella difficoltà ad accettare l'ottica de-antropocentrata darwiniana risiede il motivo del suo insabbiamento, fraintendimento e della sua deriva umanista che vanno viste come formazioni reattive di difesa defocalizzate. Tutt'oggi il darwinismo è purtroppo frainteso in primo luogo da un esegesi superficiale che tende a raffigurare l’avvicendarsi dei cambiamenti evolutivi come un percorso teleologico verso un fine ultimo migliore in senso assoluto rispetto ai risultati parziali delle varie epoche storiche e in secondo luogo a forzare l’interpretazione di questo processo proiettando su di esso significati più univoci, essenziali e meno complessi di quello che la natura mostra (Marchesini 2009: 11). Un’interpretazione in chiave antropocentrica e umanistica del paradigma evoluzionistica, spiega Marchesini (2009; 39) non ha permesso purtroppo né la messa in luce della ricchezza di referenze e prestiti che l'alterità animale ha offerto al percorso antropopoietico umano e nemmeno ha colto il valore della pluralità ontologica dei viventi: unici, diversi, in continuo divenire. Ora più che mai, riscoprire le pagine di Darwin alla fonte potrà dare una voce dirompente a quella “rivoluzione silenziosa” (Andreozzi 2009) che è stato l'evoluzionismo fino ad ora. Nelle pagine de “L'origine dell'uomo” (1871: 80-116) Darwin propone innumerevoli esempi etologici per dimostrare al lettore che gli animali non umani provano dolore, che sotto molti aspetti essi sono esseri intelligenti e sensibili, capaci di operare ragionamenti (anche complessi). Inoltre egli dimostra che essi sperimentano sentimenti come l'ansia, la disperazione, la gioia, l'amore, la tenerezza, la devozione, l'ira, la scontrosità, la determinazione, l'odio, la rabbia, lo sdegno, il disprezzo, il disgusto, il senso di colpa, l'orgoglio, lo smarrimento, la pazienza, la sorpresa, la meraviglia, la paura, l'orrore, la vergogna, la timidezza, la modestia e di tutto ciò porta dettagliate prove di ogni singola asserzione. Slegandosi da ogni preconcetto ideologico e seguendo puramente un’analisi delle osservazioni empiriche, Darwin fu pronto ad estendere le capacità razionali a qualunque essere dimostrasse di averle. Non solo quindi considerò razionale il comportamento di primati quali le scimmie, ma persino quello di taluni animali considerati nel senso comune tra i più “inferiori e infimi” come i vermi. Nel suo ultimo libro “L'azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale” (Darwin 1881) persino i vermi sono presentati come capaci di ragionamenti razionali, in quanto, nella pratica di trascinare le foglie cadute a copertura delle entrate delle loro gallerie, sebbene ciechi riescano con notevole destrezza nella maggior parte dei casi a introdurre nella galleria per il verso giusto anche oggetti (pezzetti di carta) dalle forme sconosciute fino a quel momento dimostrando di sapersi adattare a situazioni problematiche nuove (cosa di cui sembrano non essere capaci ad esempio le vespe Sphex, animali che sembrerebbero più complessi). La questione dell'intelligenza degli animali per Darwin restava un problema da analizzare caso per caso, attraverso un attento studio comportamentale di ogni singolo animale. Cadeva così ogni giustificazione al considerare l’umanità come unica specie razionale, ma semplicemente in una scala graduale come più razionale di altre. Come accennato nel primo capitolo della mia trattazione però, chi si appresta a interagire e descrivere il mondo animale facilmente corre il rischio di compiere l’errore di un antropomorfizzazione, distorsione che può sviare dal soddisfacimento dei veri bisogni animali o dalla comprensione delle loro caratteristiche peculiari di specie. Un atteggiamento diametralmente all' opposto che a priori considera il comportamento animale come un universo a se stante ( non raccontabile attraverso similitudini, somiglianze e affinità con il nostro) può essere altrettanto se non più pericoloso. Un atteggiamento antropomorfizzante come quello utilizzato da Darwin nel passo precedente ( che non ha nulla a che fare con la stupida pratica di antropomorfizzare nelle sembianze gli animali da compagnia da umani o di obbligarli a pratiche non consone alla loro specie provocando loro disagio) non svaluta ma accresce il valore dell’alterità. Può darsi che gli animali abbiano sentimenti di tipo diverso dai nostri, che meriterebbero definizioni diverse. Ma essi non possono presentarci la loro cultura e descriverci le loro emozioni se non mostrandocele. Ogni conoscenza di loro è purtroppo mediata dall’osservazione di un umano che non può evitare di utilizzare categorie a lui proprie. Il punto sta nel considerare i risvolti del metodo usato e la buona fede del ricercatore. Confrontando un metodo che pecca di antropomorfizzazione ( nel senso di attribuzione forse indebita di facoltà ed emozioni umane agli animali ) e un metodo che pecca di de-valorizzazione dell’alterità ( considerando a priori i dati evidenziati dal ricercatore sue proiezioni di umano su esseri considerati totalmente diversi) a mio avviso forse, nel primo caso, all’animale vengono riconosciuti maggiori diritti mentre nel secondo caso potrebbero essergliene tolti. Quindi, considerando che entrambi i due metodi contengono una distorsione, penso che un approssimazione per eccesso di facoltà umane sia quella capace di costare meno sofferenza. Melius abundare quam deficere. La stessa logica è quella che porta Darwin a presentare la questione del possesso del senso morale. La differenza più evidente tra gli esseri umani e gli altri animali per esso risiede proprio nel senso morale, ma questo non vuol dire che gli animali ne siano privi (Darwin 1871;118). Il senso morale è infatti strettamente legato agli istinti sociali e alle facoltà intellettive, caratteristiche di cui non sono privi gli altri esseri. Gli istinti sociali ci spingono a mettere da parte i nostri ristretti interessi per agire a vantaggio dell’intera comunità, ma anche gli animali sono capaci di agire con abnegazione a beneficio dei loro compagni . Anche in questo caso l’autore ce lo dimostra riportando vari esempi, come quello del pellicano cieco nutrito abbondantemente dai suoi compagni o del babbuino eroe che salvò un esemplare giovane da un branco di cani inferociti (Darwin 1871;122). Un qualche tipo di senso morale giuda quindi il comportamento sociale di tutti quegli animali che vivendo associati si aiutano scambievolmente in qualche modo, ricavandone senso di piacere e soddisfazione ma anche protezione. Sebbene gli esempi riportati da Darwin siano documentati in modo poco preciso e spesso siano frutto di racconti, essi sono stati confermati e rafforzati dai più recenti studi di etologia comportamentale compiuti sugli animali. In particolare Rachels (1990) riporta un crudele esperimento svoltosi alla Feinberg Northwestern University Medical School nel 1946 durante il quale 6 scimmie Rhesus su 8 si rifiutavano di mangiare se la richiesta di cibo era associata a una scarica elettrica data a un proprio compagno. Anche se non necessaria questa prova può dimostrare un profondo senso empatico che da luogo a comportamenti altruistici e solidali anche in animali non umani. Secondo Darwin la “simpathy”(traducibile in italiano con la capacità di empatia) negli animali è relegata di solito ai membri della propria comunità ed è stata un fattore importante che ha garantito alle comunità più empatiche maggiore prosperità e di allevare prole più numerosa. Anche l’uomo in quanto animale sociale ha ereditato dalla sua discendenza animale certi istinti alla gregarietà, al senso materno, al coraggio e all’ empatia. Ciò che distingue il senso morale umano è per Darwin però la tendenza umana a ragionare, a confrontare il suo agire e metterlo in relazione con motivi passati e futuri, di approvarli o disapprovarli, ma non c’è nessuna prova certa che questi elevati poteri mentali siano prerogativa esclusivamente umana, anzi essi sembrano essere il risultato causale di un processo selettivo a partire da alcune facoltà presenti nel mondo naturale. Maggiore saranno le facoltà mentali più facile sarà compiere scelte a vantaggio della propria sopravvivenza e di quella della comunità ed essere consapevoli delle proprie scelte. Darwin in una prospettiva molto ottimista e suggestiva immagina un futuro di progressivo perfezionamento morale tale che il cerchio che delimita la sfera di interesse morale umana si estendesse un giorno agli uomini di ogni “razza” e persino a “tutti gli esseri sensibili”. “La simpatia, oltre i confini umani, che vuol dire l’umanità verso le bestie, sembra essere fra gli acquisti morali più tardivi. (…) Questa virtù, una delle più nobili di cui l’uomo sia fornito, sembra derivare per incidente da ciò, che le nostre simpatie facendosi più tenere e più espansive e diffuse, vengono a riversarsi su tutti gli esseri senzienti. Appena questa virtù viene onorata e praticata da alcuni uomini, si diffonde attraverso l’istruzione e l’esempio ai giovani, ed eventualmente tende a radicarsi nella pubblica opinione.” (Darwin;1871;133) Proprio la teoria secondo la quale gli esseri umani sono imparentati con le altre specie ci spingerebbe dunque a classificare come “razionali” e “morali” quei comportamenti animali che troppo spesso sono stati rilegati a pura istintualità. Se si accetta a pieno il messaggio della rivoluzione darwiniana non esiste una frattura profonda tra il mondo umano e quello animale. A differenza della biologia essenzialista che era finalizzata a cogliere le qualità caratteristiche e uniche di ogni organismo, ora sappiamo che non esistono compartimenti statici e pre-determinati, ma solo una molteplicità di organismi che si assomigliano sotto alcuni aspetti e differiscono per altri. Da quando Darwin mise in crisi i fondamenti sui quali si basava la teoria dell’esclusività umana della sensibilità, dell’intelligenza e della moralità si è in cerca di una nuova etica che regoli il rapporto tra noi umani e il resto dei viventi. Le implicazioni della rivoluzione darwiniana stentano ancora oggi a farsi strada, ostacolate da letture superficiali dettate dal senso comune o da mistificazioni di chi teme, non a torto, di perdere le giustificazioni al proprio ruolo di dominatore e ordinatore del mondo intero. Purtroppo, come bene ha analizzato Andreozzi (2009), potremmo dire “compiute” quelle rivoluzioni le cui implicazioni e conseguenze siano state comprese e assimilate seppur nella loro scomodità. Fino ad allora potremmo solo parlare di “rivoluzioni silenziose”. © Mara Vegansoya Bibliografia e opere nominate. Darwin Charles (1859) L’origine delle specie, Torino, Bollati Boringhieri 2011. Darwin Carles (1871)L’origine dell’uomo, Roma, Editori Riuniti,1966. Darwin Charles (1881) L'azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale,( a cura di ) Giacomo.Scarpelli e Milli Graffi,Udine, Mimesis 2012. Marchesini Roberto ( 1996) Il concetto di soglia, Una critica all'antropocentrismo, Roma, Edizioni Theoria. Marchesini Roberto, Tonutti Sabrina (2007) Manuale di Zooantropologia, Roma, Meltemi Editore. Marchesini Roberto (2009) Il tramonto dell'uomo. La prospettiva post umanista, Bari, Edizioni Dedalo. Rachels James (1990) Creati dagli animali :implicazioni morali del darwinismo, Milano, Edizioni di comunità, 1996.Andreozzi Matteo (2009) La rivoluzione silenziosa, Pikaia, pdf online. http://www.academia.edu/407752/Andreozzi_Matteo._2009._La_rivoluzione_silenziosa_Silent_Revolution_Pikaia_Milano
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