di Mara Vegansoya Nutrirsi, si sa, è un’esigenza biologica, tuttavia è sociale la risposta attraverso cui questo bisogno viene soddisfatto. Questa è soggetta a variazioni sia all'interno dello stesso contesto sociale, che tra differenti culture, che in differenti ambienti e processi storici. Il bisogno stesso e la risposta sono a loro volta correlati, infatti fondamentale è il ruolo che lo stile di vita individuale, il proprio ruolo sociale, le proprie attività predominanti hanno nell'orientare i bisogno umani (Sepilli 1994: 7). La ricerca, la raccolta e la preparazione del cibo sono attività dal forte significato culturale, sociale e simbolico. Sebbene bisogno primario, l’alimentazione fa del nutrimento un codice di comunicazione attraverso il quale il gruppo mette in rilievo la propria identità etnica, sociale e culturale. Per questo Mary Douglas afferma che le radicate tradizioni culinarie siano tra le più resistenti al cambiamento (1975: 201) a meno che non intervengano ibridazioni o elementi di profonda rottura (Simoons 1991: 203). Violare o non partecipare alle regole di un sistema alimentare significa creare disordine sociale e può essere vissuto dalla maggioranza come avvisaglia di un pericolo destabilizzante (Guigoni 2009: 26). Condividere un pasto invece, oltre ad assumere un significato rituale, è soprattutto una forma di integrazione sociale e familiare (Sepilli 1994: 13-14). Infatti, ogni sistema d’alimentazione prevede norme precise condivise dal gruppo sociale, procedimenti che a loro volta costruiscono e comunicano regole, gerarchie e legami. Alcuni cibi possono assurgere poi al ruolo di status symbol, in particolare se il cibo in questione è, o è stato, oggetto di desiderio in quanto bene di lusso (Guigoni 2009: 13-25). E’ una costante in molte situazioni culturali quella di percepire mancanza di carne anche laddove non ce ne sia un reale bisogno. Esso risulta profondamente legato a un immaginario di ricchezza e abbondanza tipico delle classi economicamente agiate e potenti oppure ad un presunto aumento della virilità machista. Anche la stessa percezione del gusto è connotata culturalmente, l’utilizzo di solo certi alimenti (immaginiamo gli insetti o i cani) come fonte proteica ne è un esempio. Il “saper apprezzare” determinati cibi pregiati è segnale evidente di affiliazione (o desiderio di ciò) a una classe sociale elevata. Esistono poi fattori biologici, come l’intolleranza al lattosio, che contribuiscono alla complessità culturale delle usanze alimentari. Il consumo di alimenti a base dei corpi di altri animali, ovvero ciò che chiamiamo carne, ha ovunque un valore fortemente simbolico se non religioso. E’ profondamente colpito da tabù, limitazioni, quanto può essere d’altra parte oggetto di desiderio smodato. Il rapporto con l’animale risulta un rapporto fortemente legato alla sfera religiosa (Kilani 2000: 85) con particolare valore espiatorio (Frazer 1890) dettato da un disagio concettuale di fondo di tipo cognitivo e filosofico (Descola 1999: 33). Un pezzo di carne è prima di tutto animale, e dal momento che l’alterità animale è da sempre un operatore simbolico fondamentale per l’essere umano esso si inserisce in uno spazio simbolico che designa i contorni di cosa è puro e di cosa è impuro. Ingerire un cibo è come farlo diventare parte di se stessi. Ingerire un animale è quindi, come dice Fischler, (1990: 279) un campo dominato dal desiderio e dall'appetito quanto dall'incertezza, dalla diffidenza e dall'ansietà , molto più che per i cibi vegetali (Simoons 1994: 188). In particolare Simoons (1991) prova ad elencare alcuni meccanismi tras culturali che regolano i tabù alimentari di gruppo e individuali. Per capire a fondo le proibizioni alimentari sulla carne Simoons consiglia di partire dalle leggi di “magia simpatica” proposte da Farzer: la “legge della somiglianza” e quella “del contatto”, che agiscono congiuntamente. Quando due cose si assomigliano vengono credute avere le stesse caratteristiche di base, quando un qualcosa viene in contatto con qualcos'altro ne assume l’essenza. Ad esempio gli etiopi sono avversi agli ippopotami perché questi assomigliano a grossi maiali (Simoons 1991: 189). Altri due fattori speculari nel caratterizzare (e soprattutto a fissare) le abitudini alimentari possono essere la cosiddetta “neofobia”, vale a dire il timore e il rifiuto per tutti gli alimenti sconosciuti che provengono da un altrove, e il suo opposto, ovvero tendere a risparmiare gli animali più prossimi con i quali si è entrati in familiarità. E’ cosi che difficilmente un europeo assaggerà carne di locusta o del proprio animale domestico (Simoons 1991: 190-191). La carne, in quanto cibo prezioso prodotto di una trasformazione di molte risorse in poco prodotto finito (a meno che gli animali non vengano condotti a pascolare per pascoli inutilizzati o inutilizzabili), è sempre stato principalmente un cibo riservato alle élites, tanto che è ipotesi di Simoons (1991: 194) che alcuni tabù stessi siano stati imposti dal gruppo privilegiato nel tentativo di riservare a sé il cibo migliore per tutelarsi dalle richieste dei gruppi e degli individui sottoposti. Meno convincenti , in quanto non sufficientemente provate, sembrano invece le proposte di coloro che ipotizzano motivazioni materialiste di tipo utilitaristico ( non uccidere animali utili), medico ( evitare certe malattie)o tecno –ambientale\pseudomarxista (evitare animali che incidono negativamente nei rapporti ecologici locali). Simoons (1991) e anche Harris (1985) ci raccontano entrambi di un mondo dominato da prescrizioni religiose e usanze culturali che fanno uso costante di carne e derivati animali, rilegando a rarità i casi di deciso vegetarianismo o veganismo. Il vegetarianismo è in realtà un fenomeno antico e diffuso nelle religioni orientali che seguono percorsi spirituali di ricerca interiore, basti pensare che coinvolge i fedeli praticanti di grandi religioni come quella buddista, induista ,giainista, sikh, taoista e confuciana. Esso ha come suo luogo di massima diffusione sicuramente l’India sebbene sia diffuso anche in Asia. Le due più grandi religioni indiane , il buddismo e l’induismo si basano infatti entrambe sul concetto dell’ haimsa, ovvero il principio della non violenza, e quello della credenza nella metempsicosi, vale a dire nella reincarnazione delle anime. Quindi, almeno teoricamente, tra i fedeli dovrebbe valere il principio di non nuocere ad alcuna creatura vivente, pena la retrocessione in una scala di maggior purezza, pace, e chiarezza interiore. Sia nel buddismo che nell'induismo però, il ferreo vegetarianismo risulta più una prescrizione che un vero e proprio obbligo. In particolare sono i monaci buddisti e i brahmani induisti ( e le caste che aspirano al loro status sociale) a essere seguaci del culto ortodosso di aborrire ogni tipo di carne. Molto più scrupoloso è invece il giainismo, i quali seguaci, strettamente vegani, non esitano a mettersi una mascherina sulla bocca e a spazzare lungo il loro cammino per evitare di ingerire o pestare delle piccole vite (Simoons 1991: 14-16). Queste premesse ci permettono di meglio comprendere il valore che le scelte alimentari hanno nella cultura umana, ma benché spunti interessanti, sarebbe antropocentrico pensare di trattare il consumo di carne soltanto come tradizione religiosa e culinaria senza considerare le conseguenze su gli altri attori coinvolti, ovvero gli animali. Una prospettiva non antropocentrica ha necessariamente il ruolo di indagare le conseguenze sul bios di queste pratiche culturali che si rivelano ormai non più ecologicamente sostenibili ed eticamente giustificabili nelle loro modalità. Simoons Fredrick J.(1991) Non mangerai questa carne, Milano, Eleuthera. Sepilli Tullio (1994) "Per una antropologia dell'alimentazione. Determinazioni, funzioni e significati psico-culturali della risposta sociale a un bisogno biologico", La Ricerca Folklorica , n° 30, pp. 7-14 Guigoni Alessandra (2009) Antropologia del mangiale e del bere, Torrazza Coste (PV), Edizioni Altravista. Frazer James George (1890) Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1965. Kilani Mondher (2000) “La mucca pazza: ovvero il declino della ragione sacrificale” in Rivera Annamaria (a cura di), Homo Sapiens e mucca pazza, Bari, Edizioni Dedalo. Harris Marvin (1985) Buono da mangiare, Torino, Einaudi, 1990. Fischler Claude (1990) L’onnivoro. Il piacere nella storia e nella scienza, Milano, Mondadori, 1992.
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