Di Mara Vegansoya La natura umana è poliedrica, ed è stato da sempre un compito arduo per filosofi e antropologi quello di coglierne i tratti specifici. Sheler in un saggio del 1926 (120-144) come illustra Rasini (2008: 26-27) prova a ridurre a cinque le grandi interpretazioni attraverso il quale l’umano si è autorappresentato. La tradizione giudaico cristiana ci ha fornito un’ idea di umano come di un essere peccatore bisognoso di grazia divina, la tradizione classica greca ci tramanda l’idea di un essere superiore agli altri viventi in quanto possessore di ragione, le filosofie naturaliste e positiviste ottocentesche ci raccontano di un essere facente parte della categoria degli animali, soggetto a leggi naturali e prodotto della combinazione di molti elementi, Schopenhauer ci descrive un’ umanità che ,attraverso le tecniche, il linguaggio e la razionalità, ha negato la vita come una malattia, la quinta categoria Sheler la rileva infine nell'assunto ateistico di mancanza di un dio che come conseguenza lascia l’umano eticamente serio, totalmente libero e responsabile. In Sheler, e successivamente in Gehlen, vi è stato il tentativo di trovare una risposta al problema dell’essenza dell’uomo senza ricorrere però all'ormai persistente dicotomia tra anima e corpo, tra intelletto e istinti. Sheler teorizza un’unica realtà biopsichica di anima e corpo che si sviluppa congiuntamente, Gehlen invece riesce (anche se non totalmente) a superare questa dicotomia attraverso la proposta di un nuovo modello di identità umana basato non su una dicotomia interna ma sulle sue caratteristiche che lo distinguono dal resto dei viventi, rilegati al ruolo di sfondo oscuro, sui quali l’umano finisce per risaltare per contrasto e sui quali è previsto che domini. La peculiarità dell’umano sarebbe quella di essere un essere “agente”(1961: 27). In quanto carente della componente istintuale di cui gli animali sono dotati e di organi specializzati l’essere umano si è dotato di un apparato tecnico a lui ausiliario al fine di colmare le mancanze delle quali la natura lo ha fornito. Secondo Gehlen la sfera culturale (e tecnica) è stata utilizzata dall'essere umano per agire a modifica di un ambiente inospitale alla specie (1961: 32-34) per renderlo serio, affidabile e ordinato anche e soprattutto attraverso le istituzioni sociali. Remotti (1996: 12) riprende la teoria di Gehlen considerandola un paradigma sufficientemente unitario e convincente per tutte le scienze umane. L’umano sarebbe un essere che fin da subito ha dovuto dotarsi di cultura per sopperire a capacità biologiche carenti. Questa teoria dell’incompletezza ha implicato lo slittamento dell’interesse dall'individuo (dalla sua biologia e psiche) al suo contesto sociale, origine ora non solo delle categorie di pensiero, ma dell’espressione stessa delle emozioni (Remotti 1997: 15). Questa svolta culturalista ha avuto il merito di slegare l’uomo da un mero determinismo biologico, novità grazie alla quale l’uomo si libera dalle prescrizioni della natura e riacquista la facoltà del libero arbitrio, di presentare l’identità umana come un processo graduale e magmatico e di rendere esplicita la funzione delegante che abbiamo regalato alla tecnica come volano per un evolversi della nostra identità. Secondo Marchesini però (2002: 9-42) alcuni punti importati della teoria dell’incompletezza risultano confutabili. Per prima cosa questa teoria è viziata da una logica antropocentrica che cerca per principio l’identità umana nella lontananza da quella animale. Secondariamente dimostra di credere ancora che istinto e cultura debbano essere due fattori necessariamente inversamente proporzionali quando gli studi etologici ne dimostrano la compresenza e in particolare la presenza di una forte componente culturale e tecnica anche nel comportamento animale . Terzo, la teoria dell’incompletezza rifiuta l’idea di vedere l’umano come il portato di una lunga e graduale transizione da altri animali dimostrando, nel voler affermare che l’uomo di punto in bianco di sia sentito carente di cultura, di non voler accettare il gradualismo evolutivo. Inoltre è ingenuo, dice Marchesini, pensare che l’uomo sia carente di un valido corredo genetico innato e di caratteristiche fisiologiche soddisfacenti rispetto agli altri animali. L’essere umano i realtà dispone di un cervello dotato dai dieci ai dodici milioni di neuroni, ha arti e braccia che permettono movimenti estremamente vari, armonici e precisi, andature veloci e salti, ha una buona vista e percepisce uno spettro di colori molto ampio. Più che biologicamente carente e per questo auto-dotatosi di cultura, Marchesini suppone che proprio un maggiore sviluppo culturale abbia fatto insorgere nell'essere umano l’autoconvinzione di una carenza. Dire che l’essere umano sia biologicamente e istintivamente carente sarebbe frutto di un ragionamento essenzialista che valuta il reale attraverso un arbitraria scala di perfezione quando una perfezione alla quale paragonarsi non esiste. L’umano è più probabile che si sia sentito incompleto e carente a causa del continuo allontanamento dai propri vincoli di specie che lo hanno portato a meticciarsi culturalmente con l’alterità animale e l’alterità tecnica, tanto che a ogni spostamento di soglia sarebbero sorti nuovi desideri e nuove sensazioni di presunte mancanze. Attraverso la coniugazione con l’alterità si sono generate nuove caratteristiche performative che a loro volta hanno aumentato le dimensioni dell’area incognita. Questo processo ibridativo non ha meta, fine, perfezione e conclusione (Marchesini 2002: 33). Remotti, lo accusa Machesini (2002: 41), sebbene consapevole della natura costruita e ibrida dell’identità etnica, non è riuscito ad estendere questo schema interpretativo anche alla relazione uomo-animale. Anche la storia stessa dell’essere umano in relazione alle altre specie si disporrebbe in modo caotico, senza alcun tipo di finalismo o soglia netta. L’uomo sarebbe “aperto al mondo” non tanto, come sostiene Gehlen, per la mancanza di un habitat a lui specifico, cosa che lo porterebbe per questo ad artificializzare il reale per renderlo a ospitale, ma nel senso di essere per il quale sono fondamentali, più che per altri animali, i processi ibridativi con il mondo esterno (gruppo di simili, alterità animale, tecnica etc.) tanto da essere riuscito a trasformare tutta la biosfera in partner (Marchesini 2002: 61). A loro volta i partners con i quali è da sempre entrato in relazione, i quanto alterità autonome, hanno sempre forzato il suo sistema di partenza impedendogli nella realtà di chiudersi totalmente in fantasie autarchiche e narcisistiche di specie, costringendolo ad avvicinarsi ad essi e lasciarsi contaminare. Machesini legge così la cultura umana non più come un prodotto solipsistico ma come l’esempio di un grandioso progetto partecipativo orizzontale. Sheler Max (1926) “Mensch und Geschichte” in Gesammelte Werke IX Gehlen Arnold (1961) Prospettive antropologiche, Roma , Il Mulino, 2009. Remotti Franscesco (1996) Contro l’identità, Roma-Bari, Latenza. Rasini Vallori (2008) L’essere umano: percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea, Roma, Carrocci. Marchesini Roberto (2002) Post human. Verso nuovi modelli di esistenza ,Torino, Bollati Boringhieri.
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