Aiutiamo la scienza a uscire dal labirinto: la salute deve essere un diritto e non più un profitto2/9/2014 LA SALUTE E’ UN DIRITTO NON UN PROFITTO Noi ci mettiamo la faccia e i nostri organi Siamo un gruppo di professionisti del settore sanitario. Abbiamo comprato questo spazio spinti solo da una forte motivazione etica e scientifica La sperimentazione animale ha fallito Ha illuso i malati e sperperato montagne di denaro pubblico Per decenni si è cercato di ricreare le malattie umane nell'animale, ma con quali risultati? I malati di Alzheimer, Parkinson, Sclerosi Multipla, SLA, SMA,Fibrosi Cistica, Spina Bifida, Cancro e AIDS (e sono solo alcuni esempi) stanno ancora aspettando cure valide. Di tutte queste malattie non si conosce neanche la causa certa La sperimentazione animale fa bene solo alle tasche e alle carriere di chi la pratica I metodi alternativi sostitutivi esistono e sono già una realtà in tutta Europa e in diversi Paesi di tutto il mondo. Noi abbiamo deciso di sostenere la vera scienza donando i nostri organi alla ricerca dopo la morte. Chiediamo a te di fare lo stesso LA SALUTE E’ UN DIRITTO DI TUTTI, NON UN PROFITTO! INFO: http://www.progettopenco.org/ Di Mara Vegansoya Ci hanno portato a pensare che l’effetto serra sia dovuto esclusivamente alle emissioni di industrie e trasporti, una credenza questa, che spinge il cittadino medio all'insofferenza e alla rassegnazione, scoraggiato dal fatto di non riuscire a intaccare forze più grandi di lui. I mezzi di informazione non rivelano però come secondo un rapporto FAO del 2006 [1] confermato anche dallo studio di Mc Michael, J.W Powles, C.D Butler e R. Uauy del 2007, il 18 % della quantità dei gas serra prodotti artificialmente dall'essere umano e non presenti nell'originario equilibrio terrestre (metano e ossido di azoto in particolare), sia prodotto dagli allevamenti intensivi nel processo di digestione e fermentazione delle deiezioni, un dato questo, che porta la zootecnia a diventare la seconda causa di emissioni di gas serra globali. Si è calcolato, in altre parole, che una bistecca di manzo causi un emissione di gas serra e altri inquinanti equivalente a quella che si ottiene guidando per tre ore lasciando accese tutte le luci di casa (Fanelli 2007), eppure gli interessi di lobbies economiche sono così forti in questo ambito da non lasciar trapelare dati di questo tipo né in prima serata né dei manuali nelle scuole dell’obbligo. Così finiamo per non associare la produzione di carne al reale inquinamento di cui essa è causa. Il deflusso delle sostanze di scarto dagli allevamenti che si riversa nelle acque e contamina l’aria è causa prima di tutto di problemi respiratori, problemi all'apparato digerente, cefalee ed epidemie ma anche, cosa non meno importante di una degradazione della potabilità dell’acqua delle falde irreversibile (Joy 2010: 94). Come se non bastasse secondo il rapporto FAO del 2006 [2] il 70 % del terreno disboscato viene impiegato non tanto per il legname, che spesso viene persino dato alle fiamme, ma comprato dalle multinazionali alimentari per farne pascoli per nutrire gli animali da carne[3].L’importanza del consumo di cibi vegetali rispetto a quelli di origine animale diventa sempre più una priorità imprescindibile per il nostro pianeta, anche più della scelta di prodotti a km zero piuttosto che biologici. Uno studio di due ricercatori della Carnegie Mellon University (Weber e Matthews 2008) ha paragonato in termini di emissioni di un auto i diversi stili alimentari arrivando a scoprire che l’impatto sui gas serra dipende più dal cibo che si sceglie che dalla lontananza dalla quale esso arriva. In una famiglia media, scegliendo di comprare solo prodotti locali per un anno si risparmiano circa 1600 km-cibo, scegliendo di mangiare solo cibi vegetali per un anno di km-cibo se ne risparmiano ben 13.000. Un alimentazione onnivora risulta avere secondo il dossier di Foodwatch del 2008[4] un impatto ambientale otto volte maggiore rispetto a un alimentazione prettamente vegetale. Non è né ecologicamente né eticamente sostenibile una situazione dove le piantagioni vengono coltivate con priorità data al foraggio piuttosto che a sfamare quante più persone possibili. L’economista francese Frances Moore Lappè ha osservato come negli USA, nel 1979, al bestiame siano state somministrate 145 milioni di tonnellate di cereali e soia, e di queste solo 21 milioni siano tornate ad essere disponibili per l'alimentazione umana sotto forma di carne e uova: “il resto, equivalente a circa 124 milioni di tonnellate di cereali e soia, è stato sottratto al consumo umano” (Lappè 1971: 69,124). Lappè ha calcolato che se queste 124 milioni di tonnellate di cereali e soia fossero state convertite per l'alimentazione umana, avrebbero fornito “l'equivalente di una ciotola di cibo per ogni essere umano del pianeta per un intero anno”(Lappè 1971: 69,124). Nel mondo circa il 70 % dei terreni agricoli sono adibiti a pascolo[5], per sfamare animali che, se di grossa taglia, che convertiranno in media 15 chili di quei cereali in un misero chilo di carne rossa sprecando più di 15 mila litri d’acqua: uno spreco insensato se teniamo conto che per far crescere un chilo di pomodori bastano 200 litri d’acqua e che il cereale più dispendioso, il riso, ne necessita 2500 (che non è molto se paragoniamo il potere nutritivo di un chilo di riso cotto a quello di un chilo di carne)[6]. Di fronte all'ovvietà del dolore animale, della distruzione ambientale in atto e della palesemente iniqua distribuzione delle risorse, non possiamo che chiederci quale sia il motivo per il quale, ormai nel ventunesimo secolo, facciamo come specie umana così largo uso della vita degli altri esseri animali. Fanelli Daniele (2007) “Meat is murder on environment”, New Scientist, n° 2613, 18 luglio, p. 15. Lappè Francis Moore (1971) Diet for a small planet, New York, Ballantine Book. Joy Melanie (2010) Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche, Casale Monferrato, Sonda, 2012 [1] FAO Food and Agriculture Organization of United Nations, “ Livestock’s long shadow”, novembre 2006, p. XXI. ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/010/A0701E/A0701E00.pdf [2] FAO: Food and Agriculture Organization of United Nations, Agriculture and Consumer Protection Department, “ Livestock impacts on the Environment”, 2006. http://www.fao.org/ag/magazine/0612sp1.htm [4] Foodwatch: Istituto tedesco per la Ricerca sull'Economia Ecologica (2008), Klimaretter Bio?, 25 agosto 2008, p. 2. http://www.foodwatch.org/uploads/media/foodwatch-Report_Klimaretter Bio_20080825_01.pdf [5] FAO: Food and Agriculture Organization of United Nations, “AGP - Grasslands, Rangelands and Forage Crops”. http://www.fao.org/agriculture/crops/core-themes/theme/spi/grasslands-rangelands-and-forage-crops/en/ [6] Water Footprint, Products Gallery. http://www.waterfootprint.org/?page=files/productgalleryui per effettuare modifiche. Le vacche femmine da latte sono state selezionate attraverso incroci proficui affinché producessero fin 10 volte più latte rispetto alla loro condizione naturale di partenza, con una media di 50\60 litri di latte al giorno) e diventassero feritili il prima possibile. Il loro ciclo mestruale e i valori corporei ormonali vengono anch’essi controllati e forzati per garantirne le massima produttività. Produrre latte essa devono essere necessariamente continuamente gestanti o da poco madri. Le femmine vengono generalmente fecondate a 15 mesi se di razze da latte, qualche mese dopo se da carne. Dopo nove mesi di gravidanza, nasce il primo vitello e inizia la prima lattazione (produzione di latte) che dura circa 10 mesi. A tre mesi dal parto circa vengono rifecondate, dopo altri sette sono messe "in asciutta" (assenza di lattazione) per 4 settimane per ricostruire riserve corporee; dopo altri due mesi avviene il parto successivo. Si punta ad avere un vitello l'anno, una lattazione di 305 giorni con una fase di "asciutta" di massimo 60 giorni circa.
Le vacche in questa condizione perenne di gravidanza, unita al fatto che nella maggior parte degli allevamenti non dispongono di ben poco spazio mobile non sviluppano a pieno la loro muscolatura, si ammalano di ascessi e piaghe incurabili alle zampe, sviluppano perenni mastiti tenute sotto controllo da continue dosi di antibiotici. Problemi come questi causano rispettivamente l’impossibilità di un parto autonomo dell’animale, le facili fratture durante il trasporto sui camion bestiame e soprattutto, viste le insanabili mastiti, fanno si che la Direttiva Europea 92/46/CEE recepita dal DPR 14.01.1997 N. 54 abbia quantificato il tetto massimo per litro di 400 milioni di cellule di pus e 100 milioni di germi. Il vitello, appena nato, a meno che non sia una delle femmine destinate a rimpiazzare la madre sarà diretto quanto prima alla filiera dell’industria alimentare carnea. E’ consigliato nei manuali di zootecnia , al fine di ridurre al minimo lo stress alla madre e al cucciolo, che potrebbe causare loro inappetenze o squilibri, quello di separarli subito dopo la nascita, spesso quando ancora il vitello è sporco di placenta. Nei rari casi in cui questo non avviene si ovvia al problema della voglia di poppare del vitello inserendo un anello nel naso circolare con spuntoni che gli evita l’avvicinamento alla madre. Il vitello viene cosi spostato immediatamente in un box che dà 1.5 a 2 metri quadrati all'animale per le prime otto settimane di vita. All'interno di questo verrà nutrito a forza le prime 48 ore con cogliostro di altre vacche scongelato dalle riserve (il primo latte ricco di difese immunitarie e non adatto al consumo umano) poi di scadente latte in polvere privo di ferro in modo che la sua carne sia più chiara e ai limiti dell'anemia. Anche volendo non potrebbe nutrirsi direttamente del latte della madre viste le gravi infezioni che l’affliggono e che obbligano il prodotto necessariamente alla pastorizzazione. Cresciuto sarà spostato poi in un box multiplo fino alla sesta settimana a partire dalla quale potrà essere legalmente macellato. Dati incrociati da : Dialma Balasini (2000) Zootecnia applicata. Bovini e Bufali, Bologna, Edagricole Scolastico. Antoniotto Guidobono Cavalchini (2007) La mungitura. Tecnologie, scelta e gestione degli impianti, Bologna, Il Sole 24 Ore Edagricole. Wikipedia.it: http://it.wikipedia.org/wiki/Bos_taurus Singer Peter (1975) Liberazione animale, (a cura di) Paola Cavalieri, Mondadori, Milano, 1991. p142-143 di Mara Vegansoya Nutrirsi, si sa, è un’esigenza biologica, tuttavia è sociale la risposta attraverso cui questo bisogno viene soddisfatto. Questa è soggetta a variazioni sia all'interno dello stesso contesto sociale, che tra differenti culture, che in differenti ambienti e processi storici. Il bisogno stesso e la risposta sono a loro volta correlati, infatti fondamentale è il ruolo che lo stile di vita individuale, il proprio ruolo sociale, le proprie attività predominanti hanno nell'orientare i bisogno umani (Sepilli 1994: 7). La ricerca, la raccolta e la preparazione del cibo sono attività dal forte significato culturale, sociale e simbolico. Sebbene bisogno primario, l’alimentazione fa del nutrimento un codice di comunicazione attraverso il quale il gruppo mette in rilievo la propria identità etnica, sociale e culturale. Per questo Mary Douglas afferma che le radicate tradizioni culinarie siano tra le più resistenti al cambiamento (1975: 201) a meno che non intervengano ibridazioni o elementi di profonda rottura (Simoons 1991: 203). Violare o non partecipare alle regole di un sistema alimentare significa creare disordine sociale e può essere vissuto dalla maggioranza come avvisaglia di un pericolo destabilizzante (Guigoni 2009: 26). Condividere un pasto invece, oltre ad assumere un significato rituale, è soprattutto una forma di integrazione sociale e familiare (Sepilli 1994: 13-14). Infatti, ogni sistema d’alimentazione prevede norme precise condivise dal gruppo sociale, procedimenti che a loro volta costruiscono e comunicano regole, gerarchie e legami. Alcuni cibi possono assurgere poi al ruolo di status symbol, in particolare se il cibo in questione è, o è stato, oggetto di desiderio in quanto bene di lusso (Guigoni 2009: 13-25). E’ una costante in molte situazioni culturali quella di percepire mancanza di carne anche laddove non ce ne sia un reale bisogno. Esso risulta profondamente legato a un immaginario di ricchezza e abbondanza tipico delle classi economicamente agiate e potenti oppure ad un presunto aumento della virilità machista. Anche la stessa percezione del gusto è connotata culturalmente, l’utilizzo di solo certi alimenti (immaginiamo gli insetti o i cani) come fonte proteica ne è un esempio. Il “saper apprezzare” determinati cibi pregiati è segnale evidente di affiliazione (o desiderio di ciò) a una classe sociale elevata. Esistono poi fattori biologici, come l’intolleranza al lattosio, che contribuiscono alla complessità culturale delle usanze alimentari. Il consumo di alimenti a base dei corpi di altri animali, ovvero ciò che chiamiamo carne, ha ovunque un valore fortemente simbolico se non religioso. E’ profondamente colpito da tabù, limitazioni, quanto può essere d’altra parte oggetto di desiderio smodato. Il rapporto con l’animale risulta un rapporto fortemente legato alla sfera religiosa (Kilani 2000: 85) con particolare valore espiatorio (Frazer 1890) dettato da un disagio concettuale di fondo di tipo cognitivo e filosofico (Descola 1999: 33). Un pezzo di carne è prima di tutto animale, e dal momento che l’alterità animale è da sempre un operatore simbolico fondamentale per l’essere umano esso si inserisce in uno spazio simbolico che designa i contorni di cosa è puro e di cosa è impuro. Ingerire un cibo è come farlo diventare parte di se stessi. Ingerire un animale è quindi, come dice Fischler, (1990: 279) un campo dominato dal desiderio e dall'appetito quanto dall'incertezza, dalla diffidenza e dall'ansietà , molto più che per i cibi vegetali (Simoons 1994: 188). In particolare Simoons (1991) prova ad elencare alcuni meccanismi tras culturali che regolano i tabù alimentari di gruppo e individuali. Per capire a fondo le proibizioni alimentari sulla carne Simoons consiglia di partire dalle leggi di “magia simpatica” proposte da Farzer: la “legge della somiglianza” e quella “del contatto”, che agiscono congiuntamente. Quando due cose si assomigliano vengono credute avere le stesse caratteristiche di base, quando un qualcosa viene in contatto con qualcos'altro ne assume l’essenza. Ad esempio gli etiopi sono avversi agli ippopotami perché questi assomigliano a grossi maiali (Simoons 1991: 189). Altri due fattori speculari nel caratterizzare (e soprattutto a fissare) le abitudini alimentari possono essere la cosiddetta “neofobia”, vale a dire il timore e il rifiuto per tutti gli alimenti sconosciuti che provengono da un altrove, e il suo opposto, ovvero tendere a risparmiare gli animali più prossimi con i quali si è entrati in familiarità. E’ cosi che difficilmente un europeo assaggerà carne di locusta o del proprio animale domestico (Simoons 1991: 190-191). La carne, in quanto cibo prezioso prodotto di una trasformazione di molte risorse in poco prodotto finito (a meno che gli animali non vengano condotti a pascolare per pascoli inutilizzati o inutilizzabili), è sempre stato principalmente un cibo riservato alle élites, tanto che è ipotesi di Simoons (1991: 194) che alcuni tabù stessi siano stati imposti dal gruppo privilegiato nel tentativo di riservare a sé il cibo migliore per tutelarsi dalle richieste dei gruppi e degli individui sottoposti. Meno convincenti , in quanto non sufficientemente provate, sembrano invece le proposte di coloro che ipotizzano motivazioni materialiste di tipo utilitaristico ( non uccidere animali utili), medico ( evitare certe malattie)o tecno –ambientale\pseudomarxista (evitare animali che incidono negativamente nei rapporti ecologici locali). Simoons (1991) e anche Harris (1985) ci raccontano entrambi di un mondo dominato da prescrizioni religiose e usanze culturali che fanno uso costante di carne e derivati animali, rilegando a rarità i casi di deciso vegetarianismo o veganismo. Il vegetarianismo è in realtà un fenomeno antico e diffuso nelle religioni orientali che seguono percorsi spirituali di ricerca interiore, basti pensare che coinvolge i fedeli praticanti di grandi religioni come quella buddista, induista ,giainista, sikh, taoista e confuciana. Esso ha come suo luogo di massima diffusione sicuramente l’India sebbene sia diffuso anche in Asia. Le due più grandi religioni indiane , il buddismo e l’induismo si basano infatti entrambe sul concetto dell’ haimsa, ovvero il principio della non violenza, e quello della credenza nella metempsicosi, vale a dire nella reincarnazione delle anime. Quindi, almeno teoricamente, tra i fedeli dovrebbe valere il principio di non nuocere ad alcuna creatura vivente, pena la retrocessione in una scala di maggior purezza, pace, e chiarezza interiore. Sia nel buddismo che nell'induismo però, il ferreo vegetarianismo risulta più una prescrizione che un vero e proprio obbligo. In particolare sono i monaci buddisti e i brahmani induisti ( e le caste che aspirano al loro status sociale) a essere seguaci del culto ortodosso di aborrire ogni tipo di carne. Molto più scrupoloso è invece il giainismo, i quali seguaci, strettamente vegani, non esitano a mettersi una mascherina sulla bocca e a spazzare lungo il loro cammino per evitare di ingerire o pestare delle piccole vite (Simoons 1991: 14-16). Queste premesse ci permettono di meglio comprendere il valore che le scelte alimentari hanno nella cultura umana, ma benché spunti interessanti, sarebbe antropocentrico pensare di trattare il consumo di carne soltanto come tradizione religiosa e culinaria senza considerare le conseguenze su gli altri attori coinvolti, ovvero gli animali. Una prospettiva non antropocentrica ha necessariamente il ruolo di indagare le conseguenze sul bios di queste pratiche culturali che si rivelano ormai non più ecologicamente sostenibili ed eticamente giustificabili nelle loro modalità. Simoons Fredrick J.(1991) Non mangerai questa carne, Milano, Eleuthera. Sepilli Tullio (1994) "Per una antropologia dell'alimentazione. Determinazioni, funzioni e significati psico-culturali della risposta sociale a un bisogno biologico", La Ricerca Folklorica , n° 30, pp. 7-14 Guigoni Alessandra (2009) Antropologia del mangiale e del bere, Torrazza Coste (PV), Edizioni Altravista. Frazer James George (1890) Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1965. Kilani Mondher (2000) “La mucca pazza: ovvero il declino della ragione sacrificale” in Rivera Annamaria (a cura di), Homo Sapiens e mucca pazza, Bari, Edizioni Dedalo. Harris Marvin (1985) Buono da mangiare, Torino, Einaudi, 1990. Fischler Claude (1990) L’onnivoro. Il piacere nella storia e nella scienza, Milano, Mondadori, 1992. |
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