di Mara Vegansoya Nutrirsi, si sa, è un’esigenza biologica, tuttavia è sociale la risposta attraverso cui questo bisogno viene soddisfatto. Questa è soggetta a variazioni sia all'interno dello stesso contesto sociale, che tra differenti culture, che in differenti ambienti e processi storici. Il bisogno stesso e la risposta sono a loro volta correlati, infatti fondamentale è il ruolo che lo stile di vita individuale, il proprio ruolo sociale, le proprie attività predominanti hanno nell'orientare i bisogno umani (Sepilli 1994: 7). La ricerca, la raccolta e la preparazione del cibo sono attività dal forte significato culturale, sociale e simbolico. Sebbene bisogno primario, l’alimentazione fa del nutrimento un codice di comunicazione attraverso il quale il gruppo mette in rilievo la propria identità etnica, sociale e culturale. Per questo Mary Douglas afferma che le radicate tradizioni culinarie siano tra le più resistenti al cambiamento (1975: 201) a meno che non intervengano ibridazioni o elementi di profonda rottura (Simoons 1991: 203). Violare o non partecipare alle regole di un sistema alimentare significa creare disordine sociale e può essere vissuto dalla maggioranza come avvisaglia di un pericolo destabilizzante (Guigoni 2009: 26). Condividere un pasto invece, oltre ad assumere un significato rituale, è soprattutto una forma di integrazione sociale e familiare (Sepilli 1994: 13-14). Infatti, ogni sistema d’alimentazione prevede norme precise condivise dal gruppo sociale, procedimenti che a loro volta costruiscono e comunicano regole, gerarchie e legami. Alcuni cibi possono assurgere poi al ruolo di status symbol, in particolare se il cibo in questione è, o è stato, oggetto di desiderio in quanto bene di lusso (Guigoni 2009: 13-25). E’ una costante in molte situazioni culturali quella di percepire mancanza di carne anche laddove non ce ne sia un reale bisogno. Esso risulta profondamente legato a un immaginario di ricchezza e abbondanza tipico delle classi economicamente agiate e potenti oppure ad un presunto aumento della virilità machista. Anche la stessa percezione del gusto è connotata culturalmente, l’utilizzo di solo certi alimenti (immaginiamo gli insetti o i cani) come fonte proteica ne è un esempio. Il “saper apprezzare” determinati cibi pregiati è segnale evidente di affiliazione (o desiderio di ciò) a una classe sociale elevata. Esistono poi fattori biologici, come l’intolleranza al lattosio, che contribuiscono alla complessità culturale delle usanze alimentari. Il consumo di alimenti a base dei corpi di altri animali, ovvero ciò che chiamiamo carne, ha ovunque un valore fortemente simbolico se non religioso. E’ profondamente colpito da tabù, limitazioni, quanto può essere d’altra parte oggetto di desiderio smodato. Il rapporto con l’animale risulta un rapporto fortemente legato alla sfera religiosa (Kilani 2000: 85) con particolare valore espiatorio (Frazer 1890) dettato da un disagio concettuale di fondo di tipo cognitivo e filosofico (Descola 1999: 33). Un pezzo di carne è prima di tutto animale, e dal momento che l’alterità animale è da sempre un operatore simbolico fondamentale per l’essere umano esso si inserisce in uno spazio simbolico che designa i contorni di cosa è puro e di cosa è impuro. Ingerire un cibo è come farlo diventare parte di se stessi. Ingerire un animale è quindi, come dice Fischler, (1990: 279) un campo dominato dal desiderio e dall'appetito quanto dall'incertezza, dalla diffidenza e dall'ansietà , molto più che per i cibi vegetali (Simoons 1994: 188). In particolare Simoons (1991) prova ad elencare alcuni meccanismi tras culturali che regolano i tabù alimentari di gruppo e individuali. Per capire a fondo le proibizioni alimentari sulla carne Simoons consiglia di partire dalle leggi di “magia simpatica” proposte da Farzer: la “legge della somiglianza” e quella “del contatto”, che agiscono congiuntamente. Quando due cose si assomigliano vengono credute avere le stesse caratteristiche di base, quando un qualcosa viene in contatto con qualcos'altro ne assume l’essenza. Ad esempio gli etiopi sono avversi agli ippopotami perché questi assomigliano a grossi maiali (Simoons 1991: 189). Altri due fattori speculari nel caratterizzare (e soprattutto a fissare) le abitudini alimentari possono essere la cosiddetta “neofobia”, vale a dire il timore e il rifiuto per tutti gli alimenti sconosciuti che provengono da un altrove, e il suo opposto, ovvero tendere a risparmiare gli animali più prossimi con i quali si è entrati in familiarità. E’ cosi che difficilmente un europeo assaggerà carne di locusta o del proprio animale domestico (Simoons 1991: 190-191). La carne, in quanto cibo prezioso prodotto di una trasformazione di molte risorse in poco prodotto finito (a meno che gli animali non vengano condotti a pascolare per pascoli inutilizzati o inutilizzabili), è sempre stato principalmente un cibo riservato alle élites, tanto che è ipotesi di Simoons (1991: 194) che alcuni tabù stessi siano stati imposti dal gruppo privilegiato nel tentativo di riservare a sé il cibo migliore per tutelarsi dalle richieste dei gruppi e degli individui sottoposti. Meno convincenti , in quanto non sufficientemente provate, sembrano invece le proposte di coloro che ipotizzano motivazioni materialiste di tipo utilitaristico ( non uccidere animali utili), medico ( evitare certe malattie)o tecno –ambientale\pseudomarxista (evitare animali che incidono negativamente nei rapporti ecologici locali). Simoons (1991) e anche Harris (1985) ci raccontano entrambi di un mondo dominato da prescrizioni religiose e usanze culturali che fanno uso costante di carne e derivati animali, rilegando a rarità i casi di deciso vegetarianismo o veganismo. Il vegetarianismo è in realtà un fenomeno antico e diffuso nelle religioni orientali che seguono percorsi spirituali di ricerca interiore, basti pensare che coinvolge i fedeli praticanti di grandi religioni come quella buddista, induista ,giainista, sikh, taoista e confuciana. Esso ha come suo luogo di massima diffusione sicuramente l’India sebbene sia diffuso anche in Asia. Le due più grandi religioni indiane , il buddismo e l’induismo si basano infatti entrambe sul concetto dell’ haimsa, ovvero il principio della non violenza, e quello della credenza nella metempsicosi, vale a dire nella reincarnazione delle anime. Quindi, almeno teoricamente, tra i fedeli dovrebbe valere il principio di non nuocere ad alcuna creatura vivente, pena la retrocessione in una scala di maggior purezza, pace, e chiarezza interiore. Sia nel buddismo che nell'induismo però, il ferreo vegetarianismo risulta più una prescrizione che un vero e proprio obbligo. In particolare sono i monaci buddisti e i brahmani induisti ( e le caste che aspirano al loro status sociale) a essere seguaci del culto ortodosso di aborrire ogni tipo di carne. Molto più scrupoloso è invece il giainismo, i quali seguaci, strettamente vegani, non esitano a mettersi una mascherina sulla bocca e a spazzare lungo il loro cammino per evitare di ingerire o pestare delle piccole vite (Simoons 1991: 14-16). Queste premesse ci permettono di meglio comprendere il valore che le scelte alimentari hanno nella cultura umana, ma benché spunti interessanti, sarebbe antropocentrico pensare di trattare il consumo di carne soltanto come tradizione religiosa e culinaria senza considerare le conseguenze su gli altri attori coinvolti, ovvero gli animali. Una prospettiva non antropocentrica ha necessariamente il ruolo di indagare le conseguenze sul bios di queste pratiche culturali che si rivelano ormai non più ecologicamente sostenibili ed eticamente giustificabili nelle loro modalità. Simoons Fredrick J.(1991) Non mangerai questa carne, Milano, Eleuthera. Sepilli Tullio (1994) "Per una antropologia dell'alimentazione. Determinazioni, funzioni e significati psico-culturali della risposta sociale a un bisogno biologico", La Ricerca Folklorica , n° 30, pp. 7-14 Guigoni Alessandra (2009) Antropologia del mangiale e del bere, Torrazza Coste (PV), Edizioni Altravista. Frazer James George (1890) Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1965. Kilani Mondher (2000) “La mucca pazza: ovvero il declino della ragione sacrificale” in Rivera Annamaria (a cura di), Homo Sapiens e mucca pazza, Bari, Edizioni Dedalo. Harris Marvin (1985) Buono da mangiare, Torino, Einaudi, 1990. Fischler Claude (1990) L’onnivoro. Il piacere nella storia e nella scienza, Milano, Mondadori, 1992.
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Di Mara Vegansoya La natura umana è poliedrica, ed è stato da sempre un compito arduo per filosofi e antropologi quello di coglierne i tratti specifici. Sheler in un saggio del 1926 (120-144) come illustra Rasini (2008: 26-27) prova a ridurre a cinque le grandi interpretazioni attraverso il quale l’umano si è autorappresentato. La tradizione giudaico cristiana ci ha fornito un’ idea di umano come di un essere peccatore bisognoso di grazia divina, la tradizione classica greca ci tramanda l’idea di un essere superiore agli altri viventi in quanto possessore di ragione, le filosofie naturaliste e positiviste ottocentesche ci raccontano di un essere facente parte della categoria degli animali, soggetto a leggi naturali e prodotto della combinazione di molti elementi, Schopenhauer ci descrive un’ umanità che ,attraverso le tecniche, il linguaggio e la razionalità, ha negato la vita come una malattia, la quinta categoria Sheler la rileva infine nell'assunto ateistico di mancanza di un dio che come conseguenza lascia l’umano eticamente serio, totalmente libero e responsabile. In Sheler, e successivamente in Gehlen, vi è stato il tentativo di trovare una risposta al problema dell’essenza dell’uomo senza ricorrere però all'ormai persistente dicotomia tra anima e corpo, tra intelletto e istinti. Sheler teorizza un’unica realtà biopsichica di anima e corpo che si sviluppa congiuntamente, Gehlen invece riesce (anche se non totalmente) a superare questa dicotomia attraverso la proposta di un nuovo modello di identità umana basato non su una dicotomia interna ma sulle sue caratteristiche che lo distinguono dal resto dei viventi, rilegati al ruolo di sfondo oscuro, sui quali l’umano finisce per risaltare per contrasto e sui quali è previsto che domini. La peculiarità dell’umano sarebbe quella di essere un essere “agente”(1961: 27). In quanto carente della componente istintuale di cui gli animali sono dotati e di organi specializzati l’essere umano si è dotato di un apparato tecnico a lui ausiliario al fine di colmare le mancanze delle quali la natura lo ha fornito. Secondo Gehlen la sfera culturale (e tecnica) è stata utilizzata dall'essere umano per agire a modifica di un ambiente inospitale alla specie (1961: 32-34) per renderlo serio, affidabile e ordinato anche e soprattutto attraverso le istituzioni sociali. Remotti (1996: 12) riprende la teoria di Gehlen considerandola un paradigma sufficientemente unitario e convincente per tutte le scienze umane. L’umano sarebbe un essere che fin da subito ha dovuto dotarsi di cultura per sopperire a capacità biologiche carenti. Questa teoria dell’incompletezza ha implicato lo slittamento dell’interesse dall'individuo (dalla sua biologia e psiche) al suo contesto sociale, origine ora non solo delle categorie di pensiero, ma dell’espressione stessa delle emozioni (Remotti 1997: 15). Questa svolta culturalista ha avuto il merito di slegare l’uomo da un mero determinismo biologico, novità grazie alla quale l’uomo si libera dalle prescrizioni della natura e riacquista la facoltà del libero arbitrio, di presentare l’identità umana come un processo graduale e magmatico e di rendere esplicita la funzione delegante che abbiamo regalato alla tecnica come volano per un evolversi della nostra identità. Secondo Marchesini però (2002: 9-42) alcuni punti importati della teoria dell’incompletezza risultano confutabili. Per prima cosa questa teoria è viziata da una logica antropocentrica che cerca per principio l’identità umana nella lontananza da quella animale. Secondariamente dimostra di credere ancora che istinto e cultura debbano essere due fattori necessariamente inversamente proporzionali quando gli studi etologici ne dimostrano la compresenza e in particolare la presenza di una forte componente culturale e tecnica anche nel comportamento animale . Terzo, la teoria dell’incompletezza rifiuta l’idea di vedere l’umano come il portato di una lunga e graduale transizione da altri animali dimostrando, nel voler affermare che l’uomo di punto in bianco di sia sentito carente di cultura, di non voler accettare il gradualismo evolutivo. Inoltre è ingenuo, dice Marchesini, pensare che l’uomo sia carente di un valido corredo genetico innato e di caratteristiche fisiologiche soddisfacenti rispetto agli altri animali. L’essere umano i realtà dispone di un cervello dotato dai dieci ai dodici milioni di neuroni, ha arti e braccia che permettono movimenti estremamente vari, armonici e precisi, andature veloci e salti, ha una buona vista e percepisce uno spettro di colori molto ampio. Più che biologicamente carente e per questo auto-dotatosi di cultura, Marchesini suppone che proprio un maggiore sviluppo culturale abbia fatto insorgere nell'essere umano l’autoconvinzione di una carenza. Dire che l’essere umano sia biologicamente e istintivamente carente sarebbe frutto di un ragionamento essenzialista che valuta il reale attraverso un arbitraria scala di perfezione quando una perfezione alla quale paragonarsi non esiste. L’umano è più probabile che si sia sentito incompleto e carente a causa del continuo allontanamento dai propri vincoli di specie che lo hanno portato a meticciarsi culturalmente con l’alterità animale e l’alterità tecnica, tanto che a ogni spostamento di soglia sarebbero sorti nuovi desideri e nuove sensazioni di presunte mancanze. Attraverso la coniugazione con l’alterità si sono generate nuove caratteristiche performative che a loro volta hanno aumentato le dimensioni dell’area incognita. Questo processo ibridativo non ha meta, fine, perfezione e conclusione (Marchesini 2002: 33). Remotti, lo accusa Machesini (2002: 41), sebbene consapevole della natura costruita e ibrida dell’identità etnica, non è riuscito ad estendere questo schema interpretativo anche alla relazione uomo-animale. Anche la storia stessa dell’essere umano in relazione alle altre specie si disporrebbe in modo caotico, senza alcun tipo di finalismo o soglia netta. L’uomo sarebbe “aperto al mondo” non tanto, come sostiene Gehlen, per la mancanza di un habitat a lui specifico, cosa che lo porterebbe per questo ad artificializzare il reale per renderlo a ospitale, ma nel senso di essere per il quale sono fondamentali, più che per altri animali, i processi ibridativi con il mondo esterno (gruppo di simili, alterità animale, tecnica etc.) tanto da essere riuscito a trasformare tutta la biosfera in partner (Marchesini 2002: 61). A loro volta i partners con i quali è da sempre entrato in relazione, i quanto alterità autonome, hanno sempre forzato il suo sistema di partenza impedendogli nella realtà di chiudersi totalmente in fantasie autarchiche e narcisistiche di specie, costringendolo ad avvicinarsi ad essi e lasciarsi contaminare. Machesini legge così la cultura umana non più come un prodotto solipsistico ma come l’esempio di un grandioso progetto partecipativo orizzontale. Sheler Max (1926) “Mensch und Geschichte” in Gesammelte Werke IX Gehlen Arnold (1961) Prospettive antropologiche, Roma , Il Mulino, 2009. Remotti Franscesco (1996) Contro l’identità, Roma-Bari, Latenza. Rasini Vallori (2008) L’essere umano: percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea, Roma, Carrocci. Marchesini Roberto (2002) Post human. Verso nuovi modelli di esistenza ,Torino, Bollati Boringhieri. di Mara Vegansoya La sistematizzazione della teoria dell'evoluzione operata da Darwin ne “L'origine delle specie” del 1856 e nei testi successivi, ha aperto la strada a implicazioni filosofiche sul ruolo dell'uomo nella natura, tali da minare la tradizionale dottrina della “separatezza”, cioè l'idea secondo la quale l’uomo, quale “grande opera divina” fosse essere diverso dagli animali. Darwin, superando l'essenzialismo tipico dei filosofi e dei biologi tedeschi della sua epoca, in favore di un innovativo atteggiamento empirista, ebbe il coraggio (sebbene dopo vent'anni di titubanze) di esporre una teoria che avrebbe avuto l'implicazione rivoluzionaria di collocare l'uomo all'interno della natura e non più fuori essa da essa. Questa teoria declassava l'uomo ad “animale tra gli animali”, non più frutto di un progetto speciale divino e, in quanto tale, ontologicamente superiore e legittimato al dominio. Il darwinismo infligge un colpo mortale (se accettato senza remore) all'antropocentrismo. La rappresentazione del bios, accettando l'ipotesi darwiniana, non può più essere ricondotta ad uno schema gerarchico e in categorizzazioni essenzialiste immutabili, ma piuttosto ad un processo continuamente in divenire, rappresentabile come un progressivo diramarsi di forme vitali a partire da un’origine comune più semplice. Il livello di complessità raggiunto dall’ uomo, sia biologica che di competenze “superiori” si scopre frutto intimamente legato al livello “inferiore” da cui derivava in modo organico. Viene a saltare quindi l’elemento distintivo e gerarchico che legittimava la conseguente disparità morale. La portata della rivoluzione Darwiniana si dimostrava così profonda e scomoda che persino Thomas Henry Huxley, il più accanito diffusore e sostenitore della teoria del maestro, nelle sue conferenze pubbliche era solito stemperare la questione affermando che nonostante non ci fosse nessuna linea di demarcazione tra noi e gli animali, seppur derivassimo dai bruti, certamente l'uomo civilizzato non fosse più uno di loro e dunque che il darwinismo non aveva implicazioni negative per l'idea della dignità umana (Rachels 1990: 96). Proprio nella difficoltà ad accettare l'ottica de-antropocentrata darwiniana risiede il motivo del suo insabbiamento, fraintendimento e della sua deriva umanista che vanno viste come formazioni reattive di difesa defocalizzate. Tutt'oggi il darwinismo è purtroppo frainteso in primo luogo da un esegesi superficiale che tende a raffigurare l’avvicendarsi dei cambiamenti evolutivi come un percorso teleologico verso un fine ultimo migliore in senso assoluto rispetto ai risultati parziali delle varie epoche storiche e in secondo luogo a forzare l’interpretazione di questo processo proiettando su di esso significati più univoci, essenziali e meno complessi di quello che la natura mostra (Marchesini 2009: 11). Un’interpretazione in chiave antropocentrica e umanistica del paradigma evoluzionistica, spiega Marchesini (2009; 39) non ha permesso purtroppo né la messa in luce della ricchezza di referenze e prestiti che l'alterità animale ha offerto al percorso antropopoietico umano e nemmeno ha colto il valore della pluralità ontologica dei viventi: unici, diversi, in continuo divenire. Ora più che mai, riscoprire le pagine di Darwin alla fonte potrà dare una voce dirompente a quella “rivoluzione silenziosa” (Andreozzi 2009) che è stato l'evoluzionismo fino ad ora. Nelle pagine de “L'origine dell'uomo” (1871: 80-116) Darwin propone innumerevoli esempi etologici per dimostrare al lettore che gli animali non umani provano dolore, che sotto molti aspetti essi sono esseri intelligenti e sensibili, capaci di operare ragionamenti (anche complessi). Inoltre egli dimostra che essi sperimentano sentimenti come l'ansia, la disperazione, la gioia, l'amore, la tenerezza, la devozione, l'ira, la scontrosità, la determinazione, l'odio, la rabbia, lo sdegno, il disprezzo, il disgusto, il senso di colpa, l'orgoglio, lo smarrimento, la pazienza, la sorpresa, la meraviglia, la paura, l'orrore, la vergogna, la timidezza, la modestia e di tutto ciò porta dettagliate prove di ogni singola asserzione. Slegandosi da ogni preconcetto ideologico e seguendo puramente un’analisi delle osservazioni empiriche, Darwin fu pronto ad estendere le capacità razionali a qualunque essere dimostrasse di averle. Non solo quindi considerò razionale il comportamento di primati quali le scimmie, ma persino quello di taluni animali considerati nel senso comune tra i più “inferiori e infimi” come i vermi. Nel suo ultimo libro “L'azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale” (Darwin 1881) persino i vermi sono presentati come capaci di ragionamenti razionali, in quanto, nella pratica di trascinare le foglie cadute a copertura delle entrate delle loro gallerie, sebbene ciechi riescano con notevole destrezza nella maggior parte dei casi a introdurre nella galleria per il verso giusto anche oggetti (pezzetti di carta) dalle forme sconosciute fino a quel momento dimostrando di sapersi adattare a situazioni problematiche nuove (cosa di cui sembrano non essere capaci ad esempio le vespe Sphex, animali che sembrerebbero più complessi). La questione dell'intelligenza degli animali per Darwin restava un problema da analizzare caso per caso, attraverso un attento studio comportamentale di ogni singolo animale. Cadeva così ogni giustificazione al considerare l’umanità come unica specie razionale, ma semplicemente in una scala graduale come più razionale di altre. Come accennato nel primo capitolo della mia trattazione però, chi si appresta a interagire e descrivere il mondo animale facilmente corre il rischio di compiere l’errore di un antropomorfizzazione, distorsione che può sviare dal soddisfacimento dei veri bisogni animali o dalla comprensione delle loro caratteristiche peculiari di specie. Un atteggiamento diametralmente all' opposto che a priori considera il comportamento animale come un universo a se stante ( non raccontabile attraverso similitudini, somiglianze e affinità con il nostro) può essere altrettanto se non più pericoloso. Un atteggiamento antropomorfizzante come quello utilizzato da Darwin nel passo precedente ( che non ha nulla a che fare con la stupida pratica di antropomorfizzare nelle sembianze gli animali da compagnia da umani o di obbligarli a pratiche non consone alla loro specie provocando loro disagio) non svaluta ma accresce il valore dell’alterità. Può darsi che gli animali abbiano sentimenti di tipo diverso dai nostri, che meriterebbero definizioni diverse. Ma essi non possono presentarci la loro cultura e descriverci le loro emozioni se non mostrandocele. Ogni conoscenza di loro è purtroppo mediata dall’osservazione di un umano che non può evitare di utilizzare categorie a lui proprie. Il punto sta nel considerare i risvolti del metodo usato e la buona fede del ricercatore. Confrontando un metodo che pecca di antropomorfizzazione ( nel senso di attribuzione forse indebita di facoltà ed emozioni umane agli animali ) e un metodo che pecca di de-valorizzazione dell’alterità ( considerando a priori i dati evidenziati dal ricercatore sue proiezioni di umano su esseri considerati totalmente diversi) a mio avviso forse, nel primo caso, all’animale vengono riconosciuti maggiori diritti mentre nel secondo caso potrebbero essergliene tolti. Quindi, considerando che entrambi i due metodi contengono una distorsione, penso che un approssimazione per eccesso di facoltà umane sia quella capace di costare meno sofferenza. Melius abundare quam deficere. La stessa logica è quella che porta Darwin a presentare la questione del possesso del senso morale. La differenza più evidente tra gli esseri umani e gli altri animali per esso risiede proprio nel senso morale, ma questo non vuol dire che gli animali ne siano privi (Darwin 1871;118). Il senso morale è infatti strettamente legato agli istinti sociali e alle facoltà intellettive, caratteristiche di cui non sono privi gli altri esseri. Gli istinti sociali ci spingono a mettere da parte i nostri ristretti interessi per agire a vantaggio dell’intera comunità, ma anche gli animali sono capaci di agire con abnegazione a beneficio dei loro compagni . Anche in questo caso l’autore ce lo dimostra riportando vari esempi, come quello del pellicano cieco nutrito abbondantemente dai suoi compagni o del babbuino eroe che salvò un esemplare giovane da un branco di cani inferociti (Darwin 1871;122). Un qualche tipo di senso morale giuda quindi il comportamento sociale di tutti quegli animali che vivendo associati si aiutano scambievolmente in qualche modo, ricavandone senso di piacere e soddisfazione ma anche protezione. Sebbene gli esempi riportati da Darwin siano documentati in modo poco preciso e spesso siano frutto di racconti, essi sono stati confermati e rafforzati dai più recenti studi di etologia comportamentale compiuti sugli animali. In particolare Rachels (1990) riporta un crudele esperimento svoltosi alla Feinberg Northwestern University Medical School nel 1946 durante il quale 6 scimmie Rhesus su 8 si rifiutavano di mangiare se la richiesta di cibo era associata a una scarica elettrica data a un proprio compagno. Anche se non necessaria questa prova può dimostrare un profondo senso empatico che da luogo a comportamenti altruistici e solidali anche in animali non umani. Secondo Darwin la “simpathy”(traducibile in italiano con la capacità di empatia) negli animali è relegata di solito ai membri della propria comunità ed è stata un fattore importante che ha garantito alle comunità più empatiche maggiore prosperità e di allevare prole più numerosa. Anche l’uomo in quanto animale sociale ha ereditato dalla sua discendenza animale certi istinti alla gregarietà, al senso materno, al coraggio e all’ empatia. Ciò che distingue il senso morale umano è per Darwin però la tendenza umana a ragionare, a confrontare il suo agire e metterlo in relazione con motivi passati e futuri, di approvarli o disapprovarli, ma non c’è nessuna prova certa che questi elevati poteri mentali siano prerogativa esclusivamente umana, anzi essi sembrano essere il risultato causale di un processo selettivo a partire da alcune facoltà presenti nel mondo naturale. Maggiore saranno le facoltà mentali più facile sarà compiere scelte a vantaggio della propria sopravvivenza e di quella della comunità ed essere consapevoli delle proprie scelte. Darwin in una prospettiva molto ottimista e suggestiva immagina un futuro di progressivo perfezionamento morale tale che il cerchio che delimita la sfera di interesse morale umana si estendesse un giorno agli uomini di ogni “razza” e persino a “tutti gli esseri sensibili”. “La simpatia, oltre i confini umani, che vuol dire l’umanità verso le bestie, sembra essere fra gli acquisti morali più tardivi. (…) Questa virtù, una delle più nobili di cui l’uomo sia fornito, sembra derivare per incidente da ciò, che le nostre simpatie facendosi più tenere e più espansive e diffuse, vengono a riversarsi su tutti gli esseri senzienti. Appena questa virtù viene onorata e praticata da alcuni uomini, si diffonde attraverso l’istruzione e l’esempio ai giovani, ed eventualmente tende a radicarsi nella pubblica opinione.” (Darwin;1871;133) Proprio la teoria secondo la quale gli esseri umani sono imparentati con le altre specie ci spingerebbe dunque a classificare come “razionali” e “morali” quei comportamenti animali che troppo spesso sono stati rilegati a pura istintualità. Se si accetta a pieno il messaggio della rivoluzione darwiniana non esiste una frattura profonda tra il mondo umano e quello animale. A differenza della biologia essenzialista che era finalizzata a cogliere le qualità caratteristiche e uniche di ogni organismo, ora sappiamo che non esistono compartimenti statici e pre-determinati, ma solo una molteplicità di organismi che si assomigliano sotto alcuni aspetti e differiscono per altri. Da quando Darwin mise in crisi i fondamenti sui quali si basava la teoria dell’esclusività umana della sensibilità, dell’intelligenza e della moralità si è in cerca di una nuova etica che regoli il rapporto tra noi umani e il resto dei viventi. Le implicazioni della rivoluzione darwiniana stentano ancora oggi a farsi strada, ostacolate da letture superficiali dettate dal senso comune o da mistificazioni di chi teme, non a torto, di perdere le giustificazioni al proprio ruolo di dominatore e ordinatore del mondo intero. Purtroppo, come bene ha analizzato Andreozzi (2009), potremmo dire “compiute” quelle rivoluzioni le cui implicazioni e conseguenze siano state comprese e assimilate seppur nella loro scomodità. Fino ad allora potremmo solo parlare di “rivoluzioni silenziose”. © Mara Vegansoya Bibliografia e opere nominate. Darwin Charles (1859) L’origine delle specie, Torino, Bollati Boringhieri 2011. Darwin Carles (1871)L’origine dell’uomo, Roma, Editori Riuniti,1966. Darwin Charles (1881) L'azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale,( a cura di ) Giacomo.Scarpelli e Milli Graffi,Udine, Mimesis 2012. Marchesini Roberto ( 1996) Il concetto di soglia, Una critica all'antropocentrismo, Roma, Edizioni Theoria. Marchesini Roberto, Tonutti Sabrina (2007) Manuale di Zooantropologia, Roma, Meltemi Editore. Marchesini Roberto (2009) Il tramonto dell'uomo. La prospettiva post umanista, Bari, Edizioni Dedalo. Rachels James (1990) Creati dagli animali :implicazioni morali del darwinismo, Milano, Edizioni di comunità, 1996.Andreozzi Matteo (2009) La rivoluzione silenziosa, Pikaia, pdf online. http://www.academia.edu/407752/Andreozzi_Matteo._2009._La_rivoluzione_silenziosa_Silent_Revolution_Pikaia_Milano La tecnica nacque come strumento nelle mani dell’essere umano per dominare la natura ai fini degli interessi umani, per superare i limiti biologici della propria specie. Nel corso della storia umana l’apparato tecnologico, da semplice strumento di sopravvivenza, è diventato sempre più manipolatore dell’umanità stessa. I dispositivi di cui l’umanità lo ha fornito lo hanno reso una struttura autoportante che tende a riprodursi e rafforzarsi come un parassita per mezzo dei suoi contagiati. L’apparato tecnico produttivo o “megamacchina”, per usare le parole di Serge Latouche (1995), mira necessariamente a un tipo di sviluppo progressivo, espansivo e concretamente distruttivo. Chi sia il fantino (leader o manager) che guidi il cavallo del progresso tecnico-produttivo è ormai un dato ininfluente. Certi valori come, solo per citarne alcuni, il desiderio del consumo per il consumo (si veda il culto dello shopping), l’economicismo, la logica del profitto, il bisogno di oggetti tecnologici sempre più moderni oltre ogni reale esigenza, la spensieratezza irresponsabile della filosofia del “cogli l’attimo” e della “vita spericolata” sono stati inculcati nella società occidentale e occidentalizzata dai tentacoli della megamacchina attraverso media, musica, istruzione, tendenze, e divertimenti tanto da essere un “habitus”[1] un automatismo performante implementato inconsciamente dagli individui che orienta le loro azioni e le loro scelte in modo quasi automaticamente 'naturale' permettendo l’autoriproduzione della doxa diffusa. Da mezzo per soddisfare alcuni bisogni primari dell'essere umano l’apparato tecnico produttivo è diventato esso stesso creatore di nuovi bisogni per vendere le sue merci. Fino a che punto la ricerca scientifica e il progresso tecnologico saranno davvero volti a soddisfare necessità stringenti, prima di diventare un unico processo referenziale slegato da urgenze reali? L’umanità è resa oramai assuefatta alla sua presenza e non più in grado di gestirla e di governarla a pieno, ma solo di fruirne in tempi e i modi stabiliti dal sistema stesso. Nel suo processo di sviluppo l’apparato tecnico ha contribuito ad allontanare l’essere umano dal contatto diretto con il reale naturale operando come medium. Man mano che l’essere umano si affida alla tecnica ha un contatto sempre meno di tipo emotivo sia con se stesso(per l'adeguamento alla logica delle macchine)sia con le alterità (per gli aspetti scomodi e frustranti dell’esistenza, ela caoticità del naturale vissuti socraticamente come paure e malattie da guarire dalle quali tenersi lontani per una vita standardizzata da normopatici imbevuta di artificialità)[2]. Solo per citare alcuni esempi, l’agricoltura viene così sempre più meccanizzata a scapito della qualità del prodotto, la terra violentata da pesticidi chimici per non rispettare i ritmi della natura, gli animali immessi come oggetti in una catena di smontaggio fin dal momento del loro concepimento tramite uno stupro imposto da una macchina inseminatrice, e il bisogno indotto di nuovi cellulari e computer sempre più performanti scatena cruenti genocidi nei paesi africani che ospitano le miniere di coltan e altre risorse preziose . Il tecnicismo, attraverso il consumismo, ci ha portato così a considerare primario la ricerca e l’acquisto di nuovi prodotti e tecniche innovative rispetto alla salvaguardia delle vite di esseri senzienti. La tecnica, da sempre mezzo per i fini strettamente umani di dominio e controllo sulla natura, i suoi abitanti e i suoli fenomeni ( e le alterità umane considerate “bestiali”) può dirsi pienamente uno dei più evidenti epifenomeni dell’antropocentrico. Lentamente però, è inquietante notare, come quest’ultima si faccia sempre più tecno-centrica che antropocentrica apportando ricerche, sviluppando sistemi di razionalizzazione, metodi repressivi, armi militari, energie pericolose etc., persino dannosi e controproducenti per la razza umana stessa sfruttando le relazioni di diseguale potere che intercorrono nei sistemi sociali ©Mara Vegansoya [1] Termine nell’eccezione di Bordieau (1972) [2] Riflessioni ispirate da :Umberto Garimberti (1999) Latouche Serge (1995) La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Torino, Bollati Boringhieri. Garimberti Umberto (1999) Psiche e tecnè, Milano, Feltrinelli. Bordieau Pierre (1972) Esquisse d’une thorie de la pratique ,Ginevra, Droz. |
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December 2015
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